martedì 4 dicembre 2012

Boucherouite a Modena

"Occorre scatenare l'inflazione ovunque!"
(Internazionale Situazionista, Bollettino Centrale 1/1958)

Con qualche madornale revisione ed un'esilarante traduzione inglese (delle quali  non sono responsabile)  quanto segue  è pubblicato nel catalogo di mostra
"Stile Libero, Storie di arte tessile a Marrakech", Verolino Contmporary a Modena 1/24 dicembre 2012.


Luciano Ghersi
Dove volano i Tappeti

Cinque anni fa, incontravo Bucherouite senza saperlo: sul sedile del cocchiere di un calesse, in sosta a Marrakech.  "Ma guarda un po': un tappeto annodato con gli stracci!" Siccome tesso robaccia di ogni genere, quel pezzo mi intrigò tecnicamente. Il cocchiere, sconcertato dal mio interessamento quel vile tappeto, mi chiese una cifra talmente irrisoria che si tirò sul prezzo soltanto pro forma, per non toglierci il gusto di mercanteggiare. Confesso amaramente di avere conservato soltanto un frammento di quel tappeto. Tutto intero, mi portava il bagaglio in sovrappeso, che era già ingombro di pezzi assai più "seri": un Ait Jacob di costellato di ostinati e commoventi tentativi per disegnare una serie di Gul come Allah comanderebbe, un pregevole Hambal d'occasione perché troppo mitragliato dalle tarme. Anche un Tarkiya, di straforo aggiudicato per mio conto, al mio mercante mèntore, nell'esclusiva asta di Crièe Bèrbere. Infine i tre Boujad davvero allucinanti, che ho poi ho dovuto rivendere per necessità, a Daniel Spoerri: un noto artista ricco, che ricicla ogni detrito.

Ero in missione di spionaggio artigianale, in vista di un progetto strampalato che mi si prospettava sulle profughe Saharawi. Le quali, sul tappeto, stanno messe proprio male... però questa disgrazia, la si raccontò già dall'ICOC di Istanbul, 2007 (1).
In Marocco mi studiavo sopra tutti, i tappeti a cosiddetto "stile libero", come quelli di Rehamna o di Boujad: zone aberranti e proliferanti, ritmi asimmetrici, labili confini...
Io prediligo sempre quei tessuti che si possono guardare come fossero pellicole di film. Ovvero: come strisce sequenziali di tanti fotogrammi, tutti scattati dai gesti operativi di un tessitore, che sviluppi la sua trama in assenza del regista. Chi conosca i dinamismi del telaio, sa che il tessuto scorre sempre come il Tempo: quello passato si avvolge attorno a un rullo (il subbio) od, in origine, scivola sul retro, dietro le quinte che inquadrano il telaio... ma sempre scompare alla vista. Il tessitore non è come un pittore, che ha sott'occhio tutto il campo della tela. Quello invece, la sua tela, la sta proprio tessendo  e costruendo, filo di trama su filo di trama... però tutto gli sfugge passo passo, nel Passato: proprio come fa la vita. Sicché lui, con gli innegabili ma labili ricordi, si trova solo e sempre alle prese col Presente che, una volta sia vissuto, mai lo si potrà cambiare con nessuna pennellata di ritocco. Inoltre, lui si trova di fronte al suo Futuro: è lo scheletro formato dai fili dell'ordito, ancora tutti nudi e che lui dovrà vestire, con la carne delle sue proprie trame. Ovviamente, il Sultano e il Pontefice, non possono concedere tanta libertà ad un corpo qualsiasi, sociale o individuale. Sicché entrambi si affidarono ai disegni di pittori cortigiani ed i loro tessitori li dovettero copiare... altrimenti, si arrivava all'anarchia. Tali sono i pregiati e giustamente detti "tappeti di corte": celebrazioni del corpo gerarchico.

La valenza sovversiva della tessitura popolare fu bene espressa pure dal situazionista Jorn, noto pittore ma occasionalmente, anche tessitore. Jorn scrive che "Fin dall'antichità, i tessitori hanno trasmesso un insegnamento rivoluzionario in modo curioso e con forme più o meno bizzarre, mistificatrici e indirette. Una storia troppo conosciuta per studiarla seriamente" (2).
Qui, in sostanza, si tratta della figurazione "grottesca" del corpo, che struttura la cultura popolare, che è intrinsecamente sovversiva  nell'analisi di Bachtin (3). Ovviamente, in sintonia con Pontefici e Sultani, tutti acerrimi nemici della "creazione aperta", Bachtin fu gentilmente spedito in Siberia da Stalin. Senza citare né Bachtin né Jorn, pure il Vandenbroek (4) insiste sul "corporeo matrixiale" in certa tessitura di tappeti Bèrberi che lui connette, per analisi linguistiche, con le caotiche fermentazioni della gravidanza, che si apparano appunto ai latticini, in quel lessico di nomadi pastori. Ma dappertutto, il mondo va così, lo conferma l'eretico Menocchio  nelle carte micidiali dell'Inquisizione (5). Nell'attuale universo industriale, quegli stessi tappeti si possono intendere come le "macchine desideranti"... e schizofreniche, dell'Anti-Edìpo (6). Ed è infatti così, che li legge Alex Steinmann (7), che non è un artista pazzo ma il Curatore dell'Orientale al Museo Etnologico di Vienna.

Io non sono popolare, inteso nel senso di "tradizionale". A parte il Kente Ewe, che mi fu iniziato in Ghana, sono solo un tessitore autodidatta, sull'onda di quel neo-ruralismo alternativo degli anni '70, più ignoto e differente dal famoso 68. Allora non volevo per davvero, essere artista. Per me l'arte era morta con Dada nel 1917, a Zurigo, nel cabaret Voltaire. Volevo a mia insaputa, essere tribale: "Io tesso per te stesso, o mio caro con-tribale. Tu, non certo per iscambio, ma per il tuo liberale contro-dono, mi potresti conferire i tuoi legumi e cereali". Però tutto questo per me, era allora solamente Charles Fourier, cioè: un utopista bizzarro del Socialismo... non conoscevo ancora Marcel Mauss (8). Infine ho visto nei villaggi d'India, che ciò è davvero ancora una realtà.
A parte ogni politica ed antropologia, da anziano tessitore di arazzi (oppure diciamo di "kilim"), ho sempre preferito improvvisare anziché progettare: Non mi curo di esprimere alcuna idea interiore, non ho da imporre o disegni ma mi adeguo come posso al flusso dei miei fili disponibili... poi le forme si sviluppano da sole, quando il caso è necessario, in simboli irrisorî Invece, alle prese con Hali (il tappeto annodato), il flusso dei fili non è più lineare e segmentario, com'era dapprima nei miei kilim. Lì invece, il flusso si fa ancora più aleatorio perché adesso è puntuale: ciascun nodo è come un pixel, è un punto di colore indipendente che può sempre contraddire il precedente.

Tornando a Bucherouite... dal campione ritagliato sul pezzo del Cocchiere, a mio modo, ne ho rifatti però molto più fitti... senza sapere ancora come si chiamassero. Mi piacque l'austera necessità che limita il colore allo straccio disponibile e che provoca così trovate imprevedibili: anarchia tessile allo stato puro.  Poi Gebhart Blazek incoccia le mie opere su Internet, sicché mi include come tessitore colto, unico artista che firma i suoi tappeti fra le colleghe Bèrbere, anonime ed assenti, in quella mostra a Graz, che attesta il Bucherouite su Hali Magazine.
Continuo ad annodare i miei cari Bucherouite. Non avrei nulla da raggiungere al lavoro delle mie sorelle anonime, che nel Marocco tessono i loro Boucherouite, a parte i miei peccati intellettuali, i miei stracci che sono assai pregiati "sfridi" d'alta moda... e la mia firma artistica, perché non si sa mai. Chiunque mi veda intento ad annodare, commenterà sempre: "Che bella pazienza!", senza sospettare affatto la vertigine creativa (o meglio si direbbe "procreativa") che scaturisce orgasmi ad ogni nodo. Perché ogni nodo è dannato e imprevedibile, come sempre dev'esserlo l'amore. Io so che in qualche modo e in ogni nodo, condivido l'identica passione con le mie sorelle anonime che oggi nel Marocco, stanno tessendo il loro Boucherouite.

(1) Reality and politics in the Saharawi carpets http://lucianoghersi.blogspot.it
(2) Asger Jorn "La création ouverte et ses ennemis", in Internationale Situationniste n. 5, 1960.
(3) Michail Bachtin "L'opera di Rabelais e la cultura popolare". Einaudi, 2002.
(4) Paul Vandenbroeck "Azetta. L'art des femmes berbères". Société des Expositions du Palais des Beaux-Arts, 2000.
(5) Carlo Ginzburg "Il formaggio e i vermi, Il cosmo di un mugnaio del '500". Einaudi, 1976.
(6) Gilles Deleuze, Félix Guattari "L'anti-Edipo.
Capitalismo e schizofrenia". Einaudi, 2002.
(7) Axel Steinmann, Gebhart Blazek "Boucherouite. Exhibition catalogue with a comment by Daniel Spoerri". Graz, 2009.
(8) Marcel Mauss, "Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche". Einaudi, 2002.

Luciano Ghersi, come tessitore in proprio, è introdotto nell'arte contemporanea da Bruno Munari nel 1981. Ha iniziato a riciclare ogni rifiuto nella sua tessitura nel 1994. Ha esposto le sue opere in Europa, in Africa e in Oriente, ove ha pure condotto performance collettive e laboratori di tessitura creativa. E' Docente di Kente Africano e di Telaio Tribale in Fondazione Lisio, è Research Assistant in Blakhud Museum, Ghana. Oltre che in libri e riviste, ha pubblicato moltissimo online su "hypertextile".

1 commento:

Luciano Ghersi ha detto...

Tra le altre correzioni arbitrarie, leggo nel vostro catalogo, che io avrei scritto: "Nel mondo tribale, invece, di pittura ce n'è poca e, di carta proprio niente. I segni culturali sono puramente tessili niente affatto pittorici ma rappresentativi e significanti."
A parte la virgola prima di "invece" e certe altre virgole, da voi corrette arbitrariamente, qui voi mi fate scrivere che i segni tessili sono "rappresentativi e significanti".
Ovviamente, io vi scrissi che NON lo sono affatto. Ora devo vergognarmi che mi si attribuisca una devozione al Significante e alla Rappresentazione.